giovedì 22 novembre 2012

Ti racconto una storia 2


C'era una volta.... le storie, si sa, cominciano sempre così; allora c'era una volta una giovane psicologa con la voglia di cambiare il mondo, un grande entusiasmo e una grande speranza...... ma i tempi delle società sono molto diversi da quelli delle persone.
Così il tempo è passato e oggi c'è una vecchia psicoterapeuta, un po' stanca, ma che conserva ancora qualche speranza.
In effetti una riflessione sui bisogni psicoaffettivi dei bambini e sui problemi delle famiglie appare più’ che mai indispensabile. Prima di tutto perché’ man mano che aumentano gli studi e le esperienze intorno a questo ambito e’ sempre più’ evidente che i due termini della relazione sono ancora più’ strettamente collegati di quanto possiamo immaginare, anzi in realtà’ si tratta dello stesso problema.
In secondo luogo perché’ il lavoro sul campo che si svolge ormai da molti anni nei e con i Servizi Territoriali che si occupano dell’infanzia, confortato da numerosi, importanti e approfonditi studi e ricerche internazionali, hanno dimostrato che ci sono possibilità’ non solo di avviare ma anche di realizzare spesso processi di cambiamento e di crescita con risultati duraturi.

Molte volte in questi anni, in più’ di una occasione mi sono trovata a riflettere su “chi erano” in realtà’ i bambini messi al centro quando mi imbattevo in progetti per minori, decreti o battaglie legali fatti in nome dei “bambini” ma che li trascinavano invece in complicati e assurdi spostamenti o organizzazioni che i loro bisogni li soddisfacevano ben poco.
Eppure tutti gli adulti che erano coinvolti in quelle vicende: psicologi, insegnanti, genitori ecc. erano sinceramente impegnati a costruire qualcosa per il loro benessere; cosa interveniva, come mai era cosi difficile costruire qualcosa di adeguato?
Più’ cercavo di capire e più’ mi addentravo in storie difficili e dolorose.
Ero partita con le idee chiare: bastava intervenire con decisione e tutto si sarebbe sistemato, e mi trovavo invece a non sapere più’ da che parte stare, dietro quei bambini, i “miei” bambini ce n’erano altri, i loro genitori e ancora prima altri, i loro nonni, tutti bambini che non avevano potuto essere bambini, che avevano dovuto arrangiarsi, o peggio soccombere, essere usati, violati, perduti.
So bene di non dire niente di nuovo. Il fatto che il “disagio” minorile come si chiama in termine tecnico, costituisca una lunga, lunghissima catena intergenerazionale e’ ormai fatto ampiamente noto e viene sottolineato spesso da tutti gli addetti ai lavori. Mi sembra pero’ importante riprendere da li’, dalle mie impressioni di allora che ho condiviso con decine e decine di colleghi durante questi 30 anni, che ritrovo con la stessa pena e lo stesso peso, appunto, dopo 30 anni di lavoro, di preparazione, di studi e di interventi.
Vecchiaia? Senz’altro. Impreparazione? Forse. Incapacità? può darsi. Me lo sono chiesta ripetutamente in questo ultimo mese ogni volta che piena di entusiasmo mi mettevo a preparare il mio intervento di oggi.
infatti alla lettura dei nomi e del ruolo dei relatori di oggi, del programma e degli obiettivi mi ero sentita piena di idee: mille cose da dire si erano affollate alla mia mente, nomi, casi vissuti, progetti, metodi sperimentati. Invariabilmente di fronte alle pagine da riempire di parole per poter comunicare qualcosa di sensato, tutto spariva, un peso, una pena occupava tutta la mia mente e rendeva difficile trovare il resto.
Era in realtà’ questo il primo aspetto del problema, quello di fronte a cui tutti si trovano quando vogliono “vedere”: un bambino in difficoltà’ e ancora peggio ignorato, maltrattato, abusato va a toccare corde cosi’ profonde dentro di noi, arriva spesso, anche nella migliore delle vite, a risvegliare dolori cosi’ lontani e ormai incomprensibili che “non vorremmo vedere”.
I bambini devono essere felici... voglio che mio figlio sia felice e non soffra mai”, sono frasi comuni e desideri di tutti, il bisogno di allontanare un dolore intollerabile con una immagine ideale.
E’ una difesa comune dentro tutti noi e diventare adulti, far crescere definitivamente il bambino che siamo stati significa proprio accettare che nessuno può’ togliere il dolore, una parte di dolore e’ inevitabile.
Razionalmente lo sappiamo e riusciamo anche abbastanza a far fronte ai normali problemi, ma il dolore profondo e inelaborato che esprimono e ci portano le famiglie che chiamiamo <in difficoltà> e ancora di più i loro bambini ci sommerge e ci fa tornare spesso a quella condizione di impotenza della nostra infanzia.
Anche l’idea di genitori che non sono capaci o buoni, anche se mentalmente chiara, muove dentro di noi lontane e ormai inconsce paure ed emozioni, quelle delle nostre rabbie infantili e del nostro terrore di perderli o di averli rovinati per sempre.
Infine ancora più difficile è arrivare a formulare il progetto di separare un figlio dai propri genitori perché questo va ancora più profondamente a toccare quel meccanismo con basi biologiche che è l’attaccamento cioè il bisogno di protezione per la sopravvivenza della specie che fin dai primordi dell’umanità ci accomuna agli altri mammiferi.
Tutto questo se non possiamo divenirne consapevoli spinge chiunque venga a contatto con queste realtà :

  • A minimizzare e a non vedere perché’ questo e’ un modo inconscio per soffrire meno (questa difesa e’ tanto più’ forte quanto maggiore e’ il dolore per quello che succede. Possiamo ricordare quello che succedeva in Germania di fianco ai campi di sterminio dove i contadini “non vedevano” quanto avveniva.).

  • A intervenire portando sollievo materiale:oggetti, cibi, soldi perché (sempre inconsciamente) la mancanza di cose materiali viene sentita come causa principale in quanto sicuramente più facile da affrontare ed eliminare. Spesso in tutti gli interventi “sociali” viene indicata almeno come una delle concause mentre per chi lavora da molto tempo in questo settore è ormai chiaro che la carenza di mezzi economici (naturalmente in condizioni di normalità’) è la conseguenza di una incapacità ad essere adulti e perciò a procurarsi e mantenere tali mezzi.
  • A esercitare riprovazione e trovare colpevolezze. Anche questo ha alla base un meccanismo di difesa inconscio che permette di tollerare un po’ meglio il dolore in quanto permette a chi soffre di aggrapparsi all’idea che se chi e’ colpevole non lo fosse i bambini starebbero bene e non avrebbero problemi.

Tutto questo sembra molto banale ma non lo è perlomeno fino a quando non ci accorgiamo che succede dentro di noi e intorno a noi; che ci impedisce di vedere il bambino vero che sta lì fuori di noi, davanti a noi, con tutte le sue fragilità e bisogni ai quali dobbiamo provvedere adesso in modo che cresca più sano dei suoi genitori.
Questo costituisce il freno più frequente quando ci troviamo a dover decidere di separare i bambini dalla loro famiglia. Il senso di colpa che proviamo spesso proviene da quei nostri sentimenti lontani che vediamo moltiplicati nel dolore di questo bambino e dei suoi genitori.

Crescere per tutti significa superare il dolore di quella separazione e accettare che la sofferenza esiste ma molto si può fare.

martedì 13 novembre 2012

I diritti dei bambini ... Ma che diritti sono?



A pagina 17 su un terzo di pagina, non importa di quale giornale, meno importante perfino di “Curcio che filosofeggia anche su Rostagno”, l'articolo che occupa gli altri due terzi dello stesso spazio, la notizia di due fratellini di 8 e 12 anni uccisi dal padre. In realtà non fa nemmeno notizia.
Può sembrare un fatto di cronaca nera: un padre malato di mente, una disgrazia, fa parte della vita...
Ma le cose, viste da vicino, non stanno così e non solo in questo caso.
Il sindaco della cittadina in cui si era rifugiata la mamma dei piccoli, dopo avere lasciato il marito violento, mette giustamente in rilievo: “Un uomo ha scaricato la sua insensata rabbia sui figli, uccidendoli senza alcuna pietà. Due vittime innocenti che hanno pagato con la vita dissidi e tensioni familiari” (Il Fatto Quotidiano, giovedì 8 novembre). E aggiunge “In questo caso non si può certo parlare di emarginazione sociale.” perché la mamma con i due piccoli era stata accolta bene nel nuovo Comune ed era bene inserita anche in quello precedente.
Appunto la rabbia cieca, la violenza; ma anche gli abusi, i maltrattamenti, gli sfruttamenti nascono da dissidi e tensioni familiari e si scaricano sempre sui più deboli: i figli.
Sappiamo che spesso, spessissimo i genitori non sono e non riescono ad essere consapevoli di ciò che fanno. Negli ultimi trent'anni qualcosa è certamente cambiato, a cominciare dalla legge sull'adozione, che prima metteva al centro gli interessi degli adulti che volevano lasciare una eredità e invece con la legge 184 ha messo al centro il bambino con le sue necessità. In questi trent'anni l'idea che i figli sono una proprietà dei genitori ha iniziato a modificarsi; ma non ci rallegriamo troppo.
La strada è ancora lunga e alcune leggi che tutti ritengono “avanzate e civili”, e come tali vengono evocate e richieste, in realtà nascondono ancora in modo sottile e, speriamo, inconsapevole,  bisogni e necessità esclusivamente degli adulti.
Per essere più chiara mi riferisco alla richiesta sempre più forte di concedere l'adozione alle coppie gay/lesbiche, oppure alle pratiche di inseminazione   cui tanti, di ogni età, ricorrono per avere figli non riuscendoci “naturalmente”.
Viene dovunque sbandierato tutto questo come un “diritto” a diventare genitori; ma quasi mai si sente parlare invece di un dovere di essere genitori adeguati a cui i bambini hanno, loro sì, diritto.
In realtà: di quale diritto stiamo parlando? Diventare genitori non è un diritto, bensì una condizione in cui ci si può trovare e che si può  scegliere. Appunto gli adulti possono scegliere se diventare genitori o no. I bambini non scelgono.
Certo credo che tutti abbiano diritto di scegliere se diventare genitori; ma prima di tutto, come in molte altre situazioni, per fare questa scelta è indispensabile almeno interrogarsi e forse un po' verificare cosa essa comporti e quanto sia davvero alla nostra portata.  Dunque chiedersi a cosa ha diritto un bambino che viene messo al mondo e scoprire se siamo e vogliamo essere in grado di offrirglielo.
Perché per diventare guida alpina, pilota di aereo, anche solo insegnante, cioè  condizioni in cui si incide o si ha qualche responsabilità nella vita altrui, ci si deve  preparare e spesso superare giustamente esami o controlli; mentre, al contrario, a chi vuole mettere al mondo un figlio o prendersene cura non deve essere chiesto niente, ma solo concesso un diritto: come se si trattasse di acquisire beni o oggetti di esclusivo uso e proprietà personale …
Ci scandalizziamo spesso quando ricordiamo il pater familiae con diritto di vita e di morte sui figli; ci sembra che in quella società così avanzata questo fosse un retaggio di inciviltà. Siamo tuttavia sicuri di essere così lontani da quel modo di pensare se riteniamo che i figli siano un diritto e se non vogliamo accorgerci che tutte le tensioni, le rabbie, le consapevoli e inconsapevoli difficoltà coniugali e familiari finiscono per ricadere direttamente e indirettamente proprio su di loro?

Milano, 13 novembre 2012                                           Donatella Fiocchi

sabato 3 novembre 2012

“E' colpa mia se...”: ma di chi è la colpa?

L'aria un po' umida del primo autunno fa tirare su il bavero della giacca e rende piacevole il tepore “umano” dell'autobus.
Salgo di fretta prima che riparta veloce e mi trovo stretta nel piccolo spazio fra gente che va al lavoro, insegnanti, domestiche, qualche impiegato, e ragazzi con gli occhi ancora assonnati che trascinano gli zainetti.
Sono assorta nei miei pensieri: cosa mi riserva la giornata, chi devo incontrare per primo... sono ancora immersa nell'atmosfera di casa, adesso ovattata e silenziosa perché i figli hanno ormai spiccato il volo.
E' colpa mia se ...” il timbro duro ma sofferto di una voce al mio fianco oltrepassa la cortina dell'isolamento in cui ancora mi rifugiavo, forse anche perché quel tono e quelle parole costituiscono spesso per me una allerta speciale.
Di fianco a me, la nuca leggermente china, le spalle insaccate in un giaccone per contrastare i primi freddi, metto a fuoco una figuretta un po' informe che solo per il taglio corto dei capelli, la statura come la mia (non sono troppo alta!) un senso quasi rassegnato che emana da tutto il corpo individuo come quella di un ragazzino di 11 o 12 anni circa.
Al di sopra della sua spalla emerge la testa di una donna; difficile darle una età: capelli scuri tagliati corti, viso giovanile ma un po' sciupato, l'espressione dura, gli occhi severi; la madre suppongo.
Il suo rimprovero aspro continua incurante di chi sta attorno: “ ...è colpa mia se non ti svegli al mattino, è colpa mia se ci metti un secolo a fare colazione, è colpa mia se non ti sai vestire, è colpa mia se ti devo accompagnare ...” non seguo l'elenco delle colpe, incalzante e senza via d'uscita, ma penso all'intervento educativo che si sta svolgendo davanti ai miei occhi.
Penso a quanto deve essere esasperata quella madre ma anche a come è difficile avere 11 anni e uscire dall'infanzia. I miei pensieri si allontanano vagando nel tempo richiamati da un tono che forse mi suona familiare ... e poi non sono ancora in studio e non voglio entrare in storie altrui. 
Mi appare il viso ancora da bambino di mio figlio che timidamente si misurava col mondo “senza protezione”, vedo gli occhi increduli e sperduti del secondo, molto più in difficoltà...
Le “colpe” che continuano a snocciolarsi incessanti al mio fianco mi riportano a ...ma l'autobus si ferma. Siamo di fronte a una scuola, madre e figlio scendono portandosi via anche tutti quei suoni così acuti e pungenti su cui le porte si richiudono riportando il silenzio.
Li seguo con gli occhi, come a dare loro un saluto: sono entrati un po' nella mia vita. D’un tratto la madre, quasi con un gesto riflesso e sempre rovesciando sul figlio parole per me ormai senza suono, toglie dalle mani del ragazzo - che lo avevano trasportato fino a quel momento - lo zaino a rotelle carico di libri e insieme si avviano verso il portone d’ingresso.
Chissà certe volte non ci accorgiamo....