domenica 28 ottobre 2012

Cosa significa decantare?

Nel significato chimico “far sedimentare e quindi separare due elementi in tutto o in parte non miscibili”; si usa in genere per il vino per il quale si tratta di rendere più prezioso il liquido che si beve, liberandolo dalle impurità che si depositano sul fondo. Si usa anche per l’acqua perché quella che si beve sia più pura e quindi migliore, con l’idea che, in questi casi, alcune sostanze “sporchino” o rendano più torbido, meno intenso quello che invece è prezioso per il nostro corpo o il nostro gusto.
E’ un termine che si usa anche in senso figurato e significa “rendere puro un sentimento, un’idea, uno stile, liberandolo da tutto quanto non è perfettamente fuso con esso”, o anche “liberare da sovrastrutture, da elementi estranei”. Il significato sembra chiaro per quanto riguarda una idea, uno stile, molto meno per quanto riguarda i sentimenti, cosa significa liberarli dalle sovrastrutture? Quali sono gli elementi estranei che rendono meno puro un sentimento? E cosa significa che un sentimento sia puro?
Si usa dire che bisogna lasciar “decantare” le passioni ma questo, in genere vuole solamente dire lasciare che si affievoliscano, che siano meno intrise di tutto quanto proviene dal corpo e divengano qualcosa di più intellettuale e, apparentemente, dominabile. Qualcosa dunque che non è più un sentimento.
Non vorrei spaventare nessuno con queste considerazioni, né fare della letteratura, ma semplicemente riflettere un po’ su cosa spinge spesso chi lavora con le persone e, in particolare, con famiglie o affetti di tipo familiare, come nelle situazioni di affido o di adozione, a usare questo termine con la determinazione di esser nella “verità” quando viene tagliato ogni tipo di rapporto.
Forse il termine è usato nel suo significato chimico: il bambino e i genitori (d’origine, adottivi o affidatari) non sono “miscibili” e dunque farli stare lontani serve a farli separare? Oppure la famiglia che ha avuto con quel bambino delle difficoltà o che, per particolari problemi, non lo ha potuto tenere è solo una sovrastruttura, un elemento estraneo di cui quindi bisogna liberarlo?
A volte e anche di frequente sembra proprio che l’idea sottostante possa essere questa, una idea però che sembra considerare, anche se in modo inconsapevole, il bambino o gli individui di una famiglia come elementi chimici sui quali si possano fare, con successo, operazioni “chimiche”.
Forse sarebbe il desiderio di tutti, in chimica gli “elementi” non soffrono, si possono spostare, unire, separare, mescolare, dividere e si hanno sempre risultati prevedibili e “indolori”.
Fra le persone, e ancora di più fra gli adulti e i bambini non è così.
Fra loro passa una corrente, l’affetto, che chimica non è, diventa un legame, un filo invisibile ma robusto che collega gli individui e li tiene uniti.
Fra gli adulti e i bambini affidati alle loro cure poi, questo legame ha una importanza e un peso particolare perché affonda le sue origini e la sua ragione addirittura nello sviluppo della specie.
Fin dalla metà del secolo scorso sono stati fatti numerosi studi sul significato dei legami fra individui e sugli effetti patologici della loro mancanza o distruzione.
Lorenz, con la sua teoria dell’imprinting, ha messo in luce fra i mammiferi quello che gli studi di Bowlby sull’attaccamento hanno scoperto fra gli uomini: gli intensi legami fra adulto e bambino hanno un profondo significato per uno sviluppo adeguato dei piccoli.
Egli dice esplicitamente “ Le figure verso le quali esso ( l’attaccamento) è diretto sono figure amate… la minaccia di perderle crea angoscia e una vera e propria disperazione”. 1
Ma questo attaccamento, legame di intensità e profondità speciali, non si sviluppa con chiunque ma solo con la persona che con continuità si occupa di lui, soddisfa i suoi bisogni ma soprattutto risponde ai suoi segnali, gli offre “calore” e svolge per lui una funzione di filtro e di “traduttore” di tutte le esperienze emotive altrimenti violentemente incomprensibili.
Dunque principalmente con la madre o con chi svolge questa funzione, perciò sicuramente anche con madri adottive o affidatarie.
La forza di questo legame si attenua durante la crescita ma dura fino all’adolescenza ed oltre e, se ben costruita e sviluppata, costituisce la base della sicurezza e maturità affettiva della vita adulta.
I legami perciò, e specialmente i legami affettivi, quello con la figura materna in modo particolare, sono dunque le nostre radici e come le radici tengono in piedi l’albero e lo ancorano al suo terreno, ne permettono l’alimentazione e la vita, così i legami affettivi e familiari ancorano il bambino a un ambiente e lo aiutano a costruire dei riferimenti stabili che gli permettono di conoscere ed imparare, quindi di vivere.
Su questo si basa l’utilità delle esperienze di affido che permettono di sostituire, ove mancante, e integrare, ove carente, questo fondamentale rapporto con una figura materna e/o una famiglia sostitutiva, possibile fonte di attaccamenti secondari.
Ma se svolge o integra questo legame fondamentale allora anche il rapporto di affido diventa un legame profondo e vitale, legato alla crescita sana dell’individuo che ne è al centro e va dunque trattato con molta cautela e capacità di capire cosa vi succede.
Non può perciò diventare, come dicevo all’inizio, qualcosa che si può creare o tagliare senza conseguenze quando le circostanze ci sembrano richiederlo.
Può capitare, per mille circostanze della vita, che i bambini e i “genitori” sia d’origine che affidatari, non possano continuare insieme la loro strada, ma si deve sempre tenere molto in considerazione il legame che si è creato fra loro aiutando entrambi a mantenerlo il più possibile nelle forme e nei modi possibili e utili al bambino.
Troppo spesso chi si trova a gestire questi rapporti, intuendone la complessità e la profondità ma non potendo usufruire di una chiara comprensione di ciò che accade, tende a trattarli come “elementi chimici”, basta “tagliare” “far decantare” e tutto si sistema, si purifica.
Non solo non è così, ma questi tagli improvvisi, queste rotture senza ragione, oppure, senza che il bambino ne capisca profondamente il motivo, ove questo ci fosse, lasciano solamente un enorme dolore, grandi difficoltà a ritrovare un equilibrio e una sicurezza affettiva e, in più di un caso, addirittura patologie dello sviluppo non sempre riparabili.
E’ vero che non è facile affrontare il dolore di una separazione da chi ha, nella nostra vita, avuto una presenza, un significato importante, lo sappiamo bene quando, anche in tarda età, vediamo morire un genitore.
Ma quando, pur dovendoci separare, rimane un contatto, una possibilità di ritrovarsi, pur saltuariamente, e magari capire insieme e insieme sopportare la difficoltà che si è creata, diventa un modo per crescere e diventare adulti.


Donatella Fiocchi

28 ottobre 2012
1 J. Bowlby Attaccamento e perdita Torino 1976, Boringhieri

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