Nel
significato chimico “far sedimentare e quindi separare
due elementi in tutto o in parte non miscibili”; si usa in genere
per il vino per il quale si tratta di rendere più prezioso il
liquido che si beve, liberandolo dalle impurità che si depositano
sul fondo. Si usa anche per l’acqua perché quella che si beve sia
più pura e quindi migliore, con l’idea che, in questi casi,
alcune sostanze “sporchino” o rendano più torbido, meno
intenso quello che invece è prezioso per il nostro corpo o il nostro
gusto.
E’
un termine che si usa anche in senso figurato e significa “rendere
puro
un sentimento, un’idea, uno stile, liberandolo
da
tutto quanto non è perfettamente fuso
con esso”, o anche “liberare
da sovrastrutture,
da
elementi estranei”.
Il significato sembra chiaro per quanto riguarda una idea, uno stile,
molto meno per quanto riguarda i sentimenti, cosa significa liberarli
dalle sovrastrutture? Quali sono gli elementi estranei che rendono
meno puro un sentimento? E cosa significa che un sentimento sia puro?
Si
usa dire che bisogna lasciar “decantare” le passioni ma questo,
in genere vuole solamente dire lasciare che si affievoliscano, che
siano meno intrise di tutto quanto proviene dal corpo e divengano
qualcosa di più intellettuale e, apparentemente, dominabile.
Qualcosa dunque che non è più un sentimento.
Non
vorrei spaventare nessuno con queste considerazioni, né fare della
letteratura, ma semplicemente riflettere un po’ su cosa spinge
spesso chi lavora con le persone e, in particolare, con famiglie o
affetti di tipo familiare, come nelle situazioni di affido o di
adozione, a usare questo termine con la determinazione di esser nella
“verità” quando viene tagliato ogni tipo di rapporto.
Forse
il termine è usato nel suo significato chimico: il bambino e i
genitori (d’origine, adottivi o affidatari) non sono “miscibili”
e dunque farli stare lontani serve a farli separare? Oppure la
famiglia che ha avuto con quel bambino delle difficoltà o che, per
particolari problemi, non lo ha potuto tenere è solo una
sovrastruttura, un elemento estraneo di cui quindi bisogna liberarlo?
A
volte e anche di frequente sembra proprio che l’idea sottostante
possa essere questa, una idea però che sembra considerare, anche se
in modo inconsapevole, il bambino o gli individui di una famiglia
come elementi chimici sui quali si possano fare, con successo,
operazioni “chimiche”.
Forse
sarebbe il desiderio di tutti, in chimica gli “elementi” non
soffrono, si possono spostare, unire, separare, mescolare, dividere
e si hanno sempre risultati prevedibili e “indolori”.
Fra
le persone, e ancora di più fra gli adulti e i bambini non è
così.
Fra
loro passa una corrente, l’affetto, che chimica non è, diventa un
legame, un filo invisibile ma robusto che collega gli individui e li
tiene uniti.
Fra
gli adulti e i bambini affidati alle loro cure poi, questo legame ha
una importanza e un peso particolare perché affonda le sue origini
e la sua ragione addirittura nello sviluppo della specie.
Fin
dalla metà del secolo scorso sono stati fatti numerosi studi sul
significato dei legami fra individui e sugli effetti patologici della
loro mancanza o distruzione.
Lorenz,
con la sua teoria dell’imprinting, ha messo in luce fra i
mammiferi quello che gli studi di Bowlby sull’attaccamento hanno
scoperto fra gli uomini: gli intensi legami fra adulto e bambino
hanno un profondo significato per uno sviluppo adeguato dei piccoli.
Egli
dice esplicitamente “ Le figure verso le quali esso (
l’attaccamento) è diretto sono figure amate… la minaccia di
perderle crea angoscia e una vera e propria disperazione”. 1
Ma
questo attaccamento,
legame
di intensità e profondità speciali, non si sviluppa con chiunque
ma solo con la persona che
con continuità
si occupa di lui, soddisfa i suoi bisogni ma soprattutto risponde ai
suoi segnali, gli offre “calore” e svolge per lui una funzione di
filtro e di “traduttore” di tutte le esperienze emotive
altrimenti violentemente incomprensibili.
Dunque
principalmente con la madre o con chi svolge questa funzione, perciò
sicuramente anche con madri adottive o affidatarie.
La
forza di questo legame si attenua durante la crescita ma dura fino
all’adolescenza ed oltre e, se ben costruita e sviluppata,
costituisce la base della sicurezza e maturità affettiva della vita
adulta.
I
legami perciò, e specialmente i legami affettivi, quello con la
figura materna in modo particolare, sono dunque le nostre radici e
come le radici tengono in piedi l’albero e lo ancorano al suo
terreno, ne permettono l’alimentazione e la vita, così i legami
affettivi e familiari ancorano il bambino a un ambiente e lo aiutano
a costruire dei riferimenti stabili che gli permettono di conoscere
ed imparare, quindi di vivere.
Su
questo si basa l’utilità delle esperienze di affido che permettono
di sostituire, ove mancante, e integrare, ove carente, questo
fondamentale rapporto con una figura materna e/o una famiglia
sostitutiva, possibile fonte di attaccamenti secondari.
Ma
se svolge o integra questo legame fondamentale allora anche il
rapporto di affido diventa un legame profondo e vitale, legato alla
crescita sana dell’individuo che ne è al centro e va dunque
trattato con molta cautela e capacità di capire cosa vi succede.
Non
può perciò diventare, come dicevo all’inizio, qualcosa che si
può creare o tagliare senza conseguenze quando le circostanze ci
sembrano richiederlo.
Può
capitare, per mille circostanze della vita, che i bambini e i
“genitori” sia d’origine che affidatari, non possano
continuare insieme la loro strada, ma si deve sempre tenere molto in
considerazione il legame che si è creato fra loro aiutando entrambi
a mantenerlo il più possibile nelle forme e nei modi possibili e
utili al bambino.
Troppo
spesso chi si trova a gestire questi rapporti, intuendone la
complessità e la profondità ma non potendo usufruire di una chiara
comprensione di ciò che accade, tende a trattarli come “elementi
chimici”, basta “tagliare” “far decantare” e tutto si
sistema, si purifica.
Non
solo non è così, ma questi tagli improvvisi, queste rotture senza
ragione, oppure, senza che il bambino ne capisca profondamente il
motivo, ove questo ci fosse, lasciano solamente un enorme dolore,
grandi difficoltà a ritrovare un equilibrio e una sicurezza
affettiva e, in più di un caso, addirittura patologie dello sviluppo
non sempre riparabili.
E’
vero che non è facile affrontare il dolore di una separazione da chi
ha, nella nostra vita, avuto una presenza, un significato importante,
lo sappiamo bene quando, anche in tarda età, vediamo morire un
genitore.
Ma
quando, pur dovendoci separare, rimane un contatto, una possibilità
di ritrovarsi, pur saltuariamente, e magari capire insieme e insieme
sopportare la difficoltà che si è creata, diventa un modo per
crescere e diventare adulti.
Donatella
Fiocchi
28 ottobre 2012
1
J. Bowlby Attaccamento e perdita Torino 1976, Boringhieri
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